credit immagine: Beatriz Lorena Mallet .
Garrincha. Mai soprannome fu più appropriato. Richiama un piccolo uccellino e consegnerà alla storia il calciatore più amato dai brasiliani. Sarà la sorella a chiamarlo così. Quel “Francisco”, invece, gli viene imposto, per un problema di omonimia, dal proprietario della fabbrica nella quale lavorava.
Erano gli anni in cui lo Sputnik e la cagnetta Laika venivano lanciati nello spazio; JFK e Malcom X venivano assassinati, Mandela arrestato e Martin Luther King marciava al grido di “I have a dream”; Mary Quant inventava la minigonna e nasceva la pillola anticoncezionale. Erano gli anni del più grande dribblatore di tutti i tempi: Manoel Francisco dos Santos Garrincha. Altri tempi, insomma.
Un’infanzia difficile
Sangue indio nelle vene e una personalità tanto indomabile quanto avulsa da ogni schema, sia in campo che fuori. Garrincha viene al mondo con diversi problemi fisici. La gamba più corta dell’altra -secondo molti, il segreto del suo imprevedibile dribbling- forgiato da un’infanzia di stenti e difficoltà. In un contesto di povertà e arcaiche tradizioni, conosce prestissimo alcol, fumo e droghe. Diversi dottori lo valuteranno inadatto allo sport agonistico e un test a cui viene sottoposto rivelerà un punteggio talmente basso che nessun modello valutativo sarà in grado di associargli un profilo psicologico.
Il cuore grande di Garrincha
Al termine della vittoriosa finale mondiale di Svezia ’58, chiede al suo capitano Bellini: “quando c’è il ritorno?”. Nel 1962, all’indomani del secondo trionfo mondiale (in Cile, dove Garrincha si aggiudicò il titolo di capocannoniere e miglior calciatore del torneo), al ricco e potente politico che chiedeva ai giocatori, a uno a uno, cosa volessero in regalo per il traguardo raggiunto, Garrincha, indicando una gabbietta, risponde: “vorrei che lei liberasse quell’uccellino”.
Leggendari sono i racconti attorno alle sue giocate. Come l’assist che regalò un gol facile facile, dopo essere partito dalla propria area di rigore e aver dribblato l’intera squadra avversaria. Per non parlare di quando dopo aver superato un difensore, lo attende per dribblarlo nuovamente, e poi ancora e ancora e ancora. In quegli istanti i tifosi iniziarono ad accompagnare le finte con ripetuti “olé”, dando vita a quella pratica che ancora oggi è in uso sugli spalti degli stadi di tutto il mondo.
Oltre a tutte le caratteristiche che possono venire alla mente quando si pensa alle più complete ali destre, Garrincha dava del “tu” anche al gol. Con il Botafogo, che lo prende per la cifra di 27 dollari -record negativo assoluto per un contratto professionistico- ne realizza 249 in 579 gare. Con la nazionale verdeoro vince due coppe Rimet e disputa 50 incontri. Nelle 40 volte in cui scende in campo insieme a Pelé, il Brasile non perderà mai una partita.
I soldi guadagnati che non sperpera con il dissoluto stile di vita, gli verranno sottratti da ambigui soggetti a cui ha affidato la gestione del patrimonio. La sua generosità era leggendaria. Di ritorno dal primo mondiale vinto, entrò nel solito bar e pagò i conti arretrati di tutta la clientela.
Il calciatore più amato dai brasiliani
Appena finiva di giocare, iniziavano i problemi. L’abuso di alcol lo condurrà alla depressione. Tenta il suicidio, verrà internato più volte e vivrà gli ultimi anni ai margini della società.
Muore a soli 49 anni, lasciando 15 figli. Incapace di combattere. Solitario e inerme, con i fantasmi che quel ragazzino -cresciuto poco, sia nel fisico che nell’intelletto- non riuscì mai dribblare.
Resta il calciatore più amato dai brasiliani. Anche più di Pelé. Perché a differenza di “o rei” non lascerà il Brasile per i soldi americani. Un detto brasiliano recita così: “ancora oggi, se chiedi a un vecchio brasiliano chi è Pelé, il vecchio si toglie il cappello, in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange”.